di Massimo Recalcati
Il recente rapporto annuale del CENSIS (http://www.censis.it/1) che descrive lo scenario sociale del nostro paese, come è
stato notato da diversi commentatori, si nutre abbondantemente di concetti,
figure e metafore tratte dalla psicoanalisi. Ida Dominijanni, sulle pagine del
manifesto di sabato 6 dicembre, riconosceva nel mio ultimo libro, pubblicato a
gennaio del 2010 da Cortina con il titolo L’uomo senza inconscio (Raffaello
Cortina editore, Milano 2009), la fonte di ispirazione maggiore del ritratto
che Giuseppe De Rita e il suo Centro Studi propongono per il nostro tempo. La
sregolazione pulsionale e l’eclissi del desiderio, il dominio del godimento immediato,
l’apologia del cinismo e del narcisismo, l’evaporazione del padre, sono tutti
concetti che il lettore di L'uomo senza inconscio può facilmente ritrovare,
alla lettera, nel rapporto del Censis. Lo stesso vale per la coincidenza tra la
mia tesi di fondo e quella proposta da De Rita: la cifra nichilistica del
nostro tempo si può sintetizzare parlando di una estinzione del soggetto del
desiderio e di una apologia del godimento sregolato e immediato. Se un
sociologo come De Rita utilizza un sistema concettuale direttamente derivato
dalla clinica psicoanalitica, dobbiamo chiederci il perché di questa centralità
assunta dalla psicoanalisi come modello interpretativo del presente. Provo a
dare una risposta: forse perché è sempre più evidente che la dimensione del
confronto argomentativo, o, se si preferisce, del conflitto delle
interpretazioni, lascia il posto a moti pulsionali acefali, refrattari alla
dialettica politica e vincolati a quella fascinazione macabra della pulsione di
morte che nel nostro tempo sembra non trovare più argini simbolici sufficienti?
Chiusura narcisistica, autoconservazione cinica, particolarismi etnici,
atomizzazione dei legami sociali, disfacimento della legge simbolica, non sono,
almeno nella prospettiva della psicoanalisi, classici esempi di dominio della
pulsione di morte?
Proprio questa spinta alla morte è, a mio parere, il fondo
oscuro di quella figura teorica che Lacan chiamava «il discorso del
capitalista» e che non era l’esito di una avventura nell’economia politica, ma
riguardava la fede nell’avere, la fede nell’oggetto del godimeno. Se il
desiderio è senza oggetto perché è slancio, apertura verso il nuovo, verso
l’alterità, verso l’imprevisto, se – appunto – il desiderio non ha mai un
oggetto, «il discorso del capitalista» sostiene l’illusione che solo nella fede
dell’oggetto vi sia salvezza. Di qui il carattere feticistico delle merci di
cui Marx ha offerto la teoria insuperata, e di qui il carattere illusorio della
sua offerta. C’è un collegamento tra questa dimensione del «discorso del
capitalista», che Lacan definiva come «infernale», e la crisi etica segnalata
dal rapporto del Censis, la quale a sua volta è direttamente legata all’epoca
del berlusconismo e va ben al di là degli allarmi scandalizzati di eventuali
moralisti, perché tocca al cuore le ragioni del nostro stare insieme,
dell’abitare uno spazio comune.
Leggendo L’uomo senza inconscio De Rita non ha pensato di
utilizzare una nota che giudico cruciale sull’importanza inedita di un
personaggio come Silvio Berlusconi, una nota in cui ponevo il problema della
necessità di pensare a una nuova declinazione del potere.
Al filtro della psicoanalisi si possono distinguere, in
Italia, tre grandi stagioni del potere politico. La prima è quella predipica,
che caratterizza l’affermazione dei totalitarismi storici: qui la figurazione
del potere si impernia sulla figura ipnotica e carismatica del duce, del leader
che soggioga la folla dall’alto del suo pulpito. La voce, lo sguardo e il corpo
tout court del capo diventano oggetti d’idolatria. La folla, come ha spiegato
bene Freud, si rispecchia in un ideale incarnato nello sguardo invasato e
ipnotico del suo capo. Nel nome di questo ideale (la natura, la razza, la
storia) si poteva giustificare ogni male. L’ideale elevato a Causa assoluta è
in effetti, come ha mostrato lucidamente Hannah Arendt, il cuore pulsante di
ogni totalitarismo. La paranoia è la figura clinica che meglio illustra questa
adesione fanatica alla Causa eletta come principio etico assoluto.
La seconda stagione è quella che si apre con la caduta dei
regimi totalitari e che giunge in Italia sino allo scandalo di Mani pulite: qui
abbiamo conosciuto una versione edipica del potere, dove la legge si poneva il
compito, come avviene in ogni democrazia, di limitare e circoscrive il
godimento individuale. È questo il motivo centrale della funzione edipica del
padre: il sacrificio individuale, la rinuncia pulsionale direbbe Freud, rende
possibile il patto e la convivenza sociale. L’interesse generale tende a
prevalere su quello particolare. Possiamo pensare alle figure di Alcide De
Gasperi e a quella di Enrico Berlinguer come figure che testimoniano in modo
esemplare la subordinazione degli interessi individuali a quelli collettivi. In
gioco non è più l’adesione cieca alla Causa posta come Ideale assoluto e
inumano, ma la vita della polis, il politico come ragione che rende possibile
l’integrazione delle differenze e la composizione dialettica dei conflitti. Si
può discutere delle realizzazioni più o meno riuscite di questa opzione ma la
natura edipica di una simile versione del potere è certa. Se in questo caso
dovessimo evocare una figura della clinica per raffigurare questa declinazione
del potere dovremmo evocare quella della nevrosi come posizione soggettiva
caratterizzata dalla oscillazione tra la legge e il desiderio, tra la necessità
del sacrificio individuale imposta dalla legge e la tendenza alla sua
trasgressione.
La terza stagione, quella ipermoderna del potere incarnato
da Silvio Berlusconi, realizza il godimento illimitato come l’unica possibile
forma di legge. È qui che il berlusconismo si radica al centro della
evaporazione della funzione paterna di cui parlava Lacan con riferimento
all’affermazione incontrastata e mortifera del «discorso del capitalista». La psicoanalisi
ha un nome preciso per definire questa aberrazione della legge, che serve solo
il proprio godimento: perversione. Con questo termine non ci si riferisce a
quanto avviene sotto le lenzuola, ma all’attitudine a subordinare ogni cosa (la
verità, i legami sociali, gli affetti più intimi, gli interessi generali di una
comunità) al proprio godimento personale, vissuto come un imperativo
incoercibile.
La legge si sgancia dal desiderio perché il desiderio esige
di incontrare dei limiti, per funzionare e farsi progettuale. Qui, invece, ciò
che conta – ed è veramente ciò che davvero più conterebbe in una eventuale
psicopatologia di Berlusconi – è l’angoscia provocata dal limite, dalla legge,
è cioè l’angoscia della morte. Non si intende, infatti, nulla di questa nuova
versione del potere se non si parte da questo presupposto clinico.
L’individualismo sfrenato di cui parla il rapporto del Censis è, in realtà,
l’effetto di un rigetto profondo della dimensione finita e lesa dell’umano.
Rigetto perverso di cui Berlusconi è l’incarnazione farsesca e drammatica
insieme. Per questo il suo corpo è di plastica, ritoccato dal bisturi,
protesico, corpo-scongiuro, corpo bionico che deve rendere invisibile la
presenza inquietante della malattia e l’insidia della morte. Il predellino
prende così il posto del pulpito. La leadership di Berlusconi non deriva
affatto, come pensano Di Pietro e molti altri, dalla manipolazione mediatica
della verità. Egli ottiene consenso non grazie all’oscuramento di quel che fa,
non nonostante ciò che fa, ma proprio perché è ciò che fa. In questo senso
Berlusconi fa epoca: perché solleva il problema di cosa può diventare il padre
nel tempo della sua evaporazione, nel tempo del tramonto della sua funzione
ideale-orientativa.
La risposta che il berlusconismo offre è in piena sintonia
con il discorso capitalista: il padre, il luogo della legge, diviene colui che
può godere senza limiti. Perché il suo capriccio non ha davvero più nulla di
privato in quanto assume corpo di legge, diventa, letteralmente, legge ad
personam.
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