domenica 17 novembre 2013

Che cos'è la Pedagogia?





A partire dal mondo classico, la Pedagogia si ispira all’antico ideale della paideia, che si riferisce all’autorità del modello, alla “forma” da assumere.
Secondo l’educazione classica il maestro o l’ “educatore” diventa il rappresentante dei modelli educativi: si arriva, cioè, ad essere se stessi, a pensare e a giudicare autonomamente proprio imitando “modelli”.
Del resto il significato etimologico del termine “pedagogia” deriva dal “pais” (bambino) e da “agon” (guidare), ecco perché la pedagogia, sin dai tempi antichi, stava ad indicare la “guida” del fanciullo e cioè l’educazione.”

Prof. Domenico Milito dell’Università degli Studi della Basilicata



Niente da eccepire in questa definizione ma...


Spero non me ne vogliano i miei insegnanti di Pedagogia dell’Università, tra l’altro bravi e appassionati, ma per me la Pedagogia è sempre rimasta un qualcosa di oscuro e misterioso. Ora non voglio semplificare troppo il problema, non sarebbe ne giusto ne intellettualmente onesto, ma voglio comunque tentare una sintesi personale. La prima cosa da fare è differenziare le varie Pedagogie (da notare che Pedagogia, lo scrivo sempre con la P maiuscola): storia della Pedagogia, Pedagogia Generale, Pedagogia Interculturale, Pedagogia Speciale, Pedagogia Sperimentale e fin qui nessuna novità, al più  la sensazione,  almeno per quanto mi riguarda, è la percezione di un dilaniamento della materia in mille rivoli, ma sembra che questo sia il metodo razionale occidentale per spiegare le cose. Per me, già sono state spese troppe parole. Allora per fare un ulteriore sintesi ecco i miei due punti salienti.

1)   La Pedagogia non ha una definizione univoca
2)   La Pedagogia si nutre di altre materie(filosofia, psicologia etc.), non è una materia a se.

Ma, a questo punto la vera domanda è, non che cos’è la Pedagogia che in fondo in fondo dice tutto e il contrario di tutto ma come si applica la Pedagogia. La mia risposta è che non credo che ci sia un metodo razionale, o meglio, solo un metodo razionale, ma venga coinvolta anche la sfera emotiva, storica e culturale del singolo insegnante, genitore ecc. Quindi, ognuno avrà il suo metodo  [la libertà di insegnamento (art. 33, comma 1 Cost.)].

Conclusione (temporanea). Forse abbiamo già tutti gli strumenti, dagli articoli della Costituzione alla nostra esperienza personale nell’insegnamento, non bisogna aggiungere altre definizioni o fare chissà quali ricerche sotterranee, basta riscoprire ciò che già abbiamo  a portata di mano. È ovvio, come ho già detto che il discorso sarebbe molto più complesso, ma per il momento questo è il mio “spunto” di riflessione.

Leggi anche "Educazione Ambientale: dimensione pedagogica e dimensione didattica": http://www.crati.it/por_calabria/dispense/Dispense/Iaquinta%20-%20dimensione%20pedagogica%20e%20dimensione%20didattica.pdf

…e a proposito di "antitesi" tra teoria e pratica, ho trovato questo “pezzo” sulla rivista digitale Linkiesta, anche questo mi sembra un’altro spunto di riflessione  interessante:

Discorso sugli intellettuali (del piffero o meno)

Botta e risposta sul nuovo libro di Mastrantonio, "Intellettuali del piffero" e la critica facile



L'articolo che segue è in forma di dialogo tra Francesco Longo (FL) e Christian Raimo (CR).


FL: Visto che vieni citato (e criticato) più di una volta nel libro di Luca Mastrantonio sugli intellettuali (Intellettuali del piffero, Marsilio), mi sembra interessante confrontarsi con te. Devo fare però una premessa. Non credo che per te comparire in un libro sugli intellettuali sia in sé una cosa negativa (per me lo sarebbe). Anche dopo aver letto il libro, infatti, il mio pregiudizio rimane inalterato. Considero gli intellettuali una galassia di persone che stanno in una zona grigia tra i Grandi Scrittori e i Politici Senza Abbastanza Carisma (o comunque senza competenze per fare i politici). Per Mastrantonio oggi gli intellettuali combattono battaglie per avere un posto al sole. Li descrive come santoni che incantano per portarsi a casa un po’ di autorevolezza e potere. Per tutto il libro non fa che mostrarne l’ipocrisia, la doppia morale, la meschinità. Mi pare che la parola che ritorna di più nel libro sia “schizofrenia”.  La vecchia guardia è composta da vegliardi incendiari (le «vecchie trombette»), mentre i più giovani si sentono incaricati di essere seriosi («giovani tromboni»). Predicano tutti qualcosa che non mettono in pratica. Per questo, il ronzio del chiacchiericcio – polemiche, slogan, sparate – forma un assordante vuoto. Mi pare che i maggiori bersagli siano Eco («qualcuno ricorda sue dure prese di posizione contro il partito a lui vicino?»), Asor Rosa, la Tamaro, Camilleri, Saviano e tutti quelli che «possono fare gli apocalittici, nei toni, ma sono ben integrati». Quando si rifà al più emblematico e inarrivabile degli intellettuali, Pasolini, non ho potuto non ripensare al fatto che non abbia mai scritto un Grande Romanzo. Mi ha sorpreso ritrovarmi ad essere d’accordo con uno scrittore che neanche amo, Moravia, che qui viene citato quando ragionò sulla parola “intellettuale”: «si è deteriorata col tempo, si è caricata di significati negativi che prima non aveva: oggi è quasi un insulto e non c’è persona che sentendosela affibbiare non provi l’impulso di protestare». 


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