mercoledì 3 settembre 2014

Pier Aldo Rovatti e i "benpensanti"


Posted on 3 settembre 2014 by  Scuola e Società

I benpensanti e l’eclissi del pensiero critico

di Pier Aldo Rovatti

La domanda che circola da qualche tempo nel mondo culturale potrebbe essere la seguente: stiamo tutti diventando dei “benpensanti”? Alla quale potrebbe accompagnarsi un interrogativo ancora più drastico: stiamo tutti trasformandoci in “tutori dell’ordine filosofico”?


Se fosse vero – ma di certo è verosimile o comunque ipotizzabile – potremmo concluderne che il pensiero critico sta declinando fin quasi a scomparire, nonostante ogni apparenza. Molto spesso il pensiero critico sembra oggi relegato in soffitta: il pensiero – si dice – ha da essere “positivo”, costruttivo, contribuire a una cultura di governo. Bisogna farla finita – si ripete spesso a voce alta – con un pensiero “negativo” solo capace di distruggere e di decostruire. È terminata l’epoca dei Derrida e anche dei Foucault, così come ormai sono state azzittite le grandi voci di Nietzsche e di Heidegger, loro mentori. Un’onda irreversibile starebbe finalmente cancellando decenni di rifiuto della ragione e dell’illuminismo, e di battaglie oscurantiste contro le sorti progressive dello spirito scientifico. Tutto sarebbe cominciato da quell’infausto ’68, di cui ora molti vorrebbero cancellare perfino la memoria.

Messo così, il quadro sembra esageratamente apocalittico, e soprattutto è un modo sbagliato di vedere le cose. Vanno introdotti dei distinguo e segnate delle differenze. Eppure la sostanza ideologica è più o meno proprio questa. Quando stigmatizzo l’entropia della filosofia come esercizio critico, so perfettamente che continuano a esistere non poche voci critiche che si oppongono al processo di omologazione e di amnesia o cercano di contrastarlo. Ma è difficile negare che la tendenza complessiva proceda in direzione opposta e che tale tendenza di pensiero omologante (che rappresenta l’interfaccia dell’omologazione sociale in cui stiamo vivendo) scalfisca ogni giorno di più, affievolisca e ammansisca quasi automaticamente l’efficacia del pensiero critico. Ne arrotondi le punte, perfino nei modi della discorsività e nelle parole stesse che vengono adoperate. Voglio dire, per esempio, che il richiamo alla vocazione socratica della filosofia e al filosofo come “disturbatore” di professione continua a farsi udire ma in maniera sempre più ovattata: diventa un richiamo esile, poco convinto, rivolto a orecchie in genere poco disposte all’ascolto. D’altronde, non si è sempre ripetuto che la filosofia non “serve” a nulla?

Per passare a esempi più circostanziati, certo che si continua a parlare di Derrida (a dieci anni dalla morte) o di Foucault (a trent’anni dalla scomparsa), ma come se ne parla? In forma di commento e di omaggio: Derrida è ormai un filosofo da album dei ricordi, Foucault – pur con maggiore fatica – diventa egli stesso un episodio del passato o si cerca comunque di neutralizzarlo nella galleria della storia del pensiero contemporaneo.

Cosa significa, dunque, “benpensanti”? Prelevo l’espressione dal felice titolo di un recente libro del sociologo e filosofo Alessandro Dal Lago (I benpensanti. Contro i tutori dell’ordine filosofico, il melangolo, Genova, pp. 220), libro che è passato finora quasi sotto silenzio e non per caso. Invito a leggerlo poiché è un testo di insolita schiettezza e di zero noia: in esso la polemica attuale (attorno al cosiddetto “nuovo realismo”) viene amplificata a tutta la vicenda del pensiero occidentale, dai greci e soprattutto dal Medioevo in su, in un curioso confronto di idee con un giovane ricercatore di formazione analitica. La schiettezza consiste nel racconto esplicito della coerenza di un intellettuale (attraverso Weber, Goffman, Bateson, Hannah Arendt, Foucault) che intende conservare e rilanciare la propria militanza di pensiero libero e di esploratore dell’orizzonte aperto delle interpretazioni. E che non nasconde di avere imparato simile libertà proprio dall’ormai famigerato ’68.

I benpensanti sarebbero allora tutti coloro che sono convinti di avere la verità in tasca e che trattano gli altri con sufficienza e supponenza filosofica. E si legittimano attribuendosi così il diritto di additare una politica culturale perbenista e oggettivamente autoritaria. Coloro che vorrebbero far diventare i “soggetti” degli esseri conformi e ubbidienti a una socializzazione artificiale dettata principalmente dal marketing delle idee, ormai diffuso ovunque. Pensiamo solo a cosa accade nell’educazione dei nostri figli e alla supponenza della pedagogia come sapere dominante.

I benpensanti sono proprio coloro che vogliono operare un taglio netto rispetto alla cultura del recente passato, che vorrebbero poterla “dimenticare” in toto, non esserne più infastiditi. Sono coloro che credono che la filosofia possa educare la gente nel momento stesso in cui loro stessi additano con disgusto la commistione tra saperi e poteri. Al contrario, il pensiero critico, ormai ridotto all’angolo, non ha mai creduto che il “filosofo” potesse o dovesse governare alcunché.
Si parla tanto oggi di etica e di programmi di comportamento. I benpensanti si danno da fare giorno e notte, intervengono sui gesti microfisici, danno consigli a chiunque e dovunque. Potremmo forse riuscire a farne a meno? Mi piacerebbe rispondere di sì. Ma la risposta realistica sembra purtroppo quella opposta.

Il Premier e l'"annuncite"


Oggi propongo questo interessante (a mio parere) articolo di di Pier Aldo Rovatti apparso su"Il Piccolo" il 15 marzo 2014

"Un momento dopo essere sceso in campo Matteo Renzi ha indicato la scuola come il luogo paradigmatico del suo programma politico. Anziché precipitarsi a Bruxelles, come aveva fatto il suo predecessore, è andato a visitare una scuola elementare multietnica di Treviso, ha abbracciato i bambini e fatto molte promesse. Poco dopo, ha riservato la sua seconda uscita pubblica a una scuola di Siracusa dove è stato accolto con grande calore: i bimbi gli hanno perfino cantato una canzoncina preparata per lui e a lui simpaticamente inneggiante. Qualcuno, alla notizia, ha storto il naso avvertendo l’odore di una pessima retorica d’antan."


Ecco le linee guida MIUR per 100mila assunzioni da LeggiOggi.it





martedì 2 settembre 2014

E se l'insegnamento fosse una professione....

....invece di una missione?

Salari bassi, riforme sbagliate e la "vocazione" al volontariato

da Notizie di libri e cultura del Corriere della Sera


  «Nonostante tutto, dopo 4 o 5 ore passate con degli adolescenti, sei stanco», dice Gianfranco Giovannone in un lunedì pomeriggio di fine settembre. Dopo aver studiato lingue a Pisa e aver insegnato in tutti gli ordini di scuola, escluse le materne, a sessant’anni suonati può permettersi di parlare della scuola senza l’abnegazione cieca del sentimentalismo deamicisiano e senza le cupezze del risentimento e della nostalgia. Del resto, non c’era né cuore-in-mano né rancore neppure nel libro che ha pubblicato qualche anno fa (Perché non sarò mai un insegnante, Longanesi), in cui attraverso le parole degli studenti veniva illustrato, con abbagliante sincerità, il declino della professione docente. Erano i ragazzi, appunto, nei loro componimenti, i primi a considerare i prof degli alieni, dei corpi estranei al mondo e alla realtà, ma soprattutto ben lontani dalla formulamagica «denaro, potere, immagine», in cui generalmente si riassume il prestigio sociale. Insomma, la classe degli insegnanti, che ha il compito importantissimo di formare i cittadini del futuro, appare proprio alle giovani generazioni come un manipolo di «sfigati», descritti in un’ampia gamma di coloriture che va dall’ironia alla vera e propria ostilità, dal compatimento al disprezzo. Più o meno la stessa considerazione di cui il docente gode all’interno della società.